Una famiglia “in uscita”: strategie e metodologie per l’azione pastorale.

 

La commissione e l’ufficio regionale di pastorale familiare hanno organizzato un fine settimana di formazione rivolto agli operatori di pastorale familiare e alle coppie interessate nelle varie diocesi al tema della ministerialità familiare e alla missionarietà della famiglia. Presso la Fraternità Francescana di Betania a Cella di Noceto ci siamo ritrovati sabato 4 e domenica 5 Luglio 2015 per lavorare sul tema delle strategie e metodologie per l’azione pastorale di una “famiglia in uscita”.

I relatori don Simone Bruno op e il dott. Roberto Maurizio. Il primo ha sviluppato il tema della ministerialità della famiglia nella prospettiva educativa ed autoeducativa delle relazioni; il secondo ha affrontato il tema dell’attivazione del territorio dalla prospettiva della pastorale familiare.

Riportiamo di seguito parte del materiale di questa due giorni di formazione.

La ministerialità della famiglia: educarsi ed educare al mistero e alla relazione oggi di don Simone Bruno

L’Ufficio di Pastorale Familiare Regionale dell’Emilia Romagna mi ha chiesto di sviluppare un tema complesso e articolato: La ministerialità della famiglia: educarsi al mistero e alla relazione oggi. Mi sembra opportuno, prima di affrontarlo nella sua parte centrale, ricostruire una cornice di riferimento che ci doti di una serie di concetti, utili a comprenderlo nel migliore dei modi. Subito dopo, commenteremo un’icona biblica e tracceremo un percorso teologico e antropologico.

1. Cosa significa il termine “famiglia”?

Partirei proprio dal significato originario del termine famiglia. Cosa significa esattamente? A quale lingua rimanda? La sua etimologia è da ricondursi a due termini antichi: il primo è faama, un termine di origine osca (lingua risalente al V secolo d.C. parlata in alcune regioni italiche: nel Sannio, nella Lucania, in Abruzzo e in Umbria), che si traduce in italiano casa; il secondo è il termine latino familia, che deriva a sua volta dal sostantivo famulus: è possibile, dunque, tradurre familia con l’espressione insieme dei famuli. Chi sono i famuli? Il famulo è una figura antichissima, ormai scomparsa, che ha segnato profondamente la struttura della famiglia moderna. Nella Roma antica, povera e piccola, il ruolo del famulo, ovvero di colui/colei che era preposto/a al servizio, aveva un valore molto diverso da quello che siamo abituati a immaginare. Il famulo era un asse portante della famiglia, quasi un umile protettore. Certo, era subordinato allo Stato sociale ma non per questo meno considerato, in quanto dal famulo, maschio o femmina, dipendeva molto della sussistenza e della buona gestione del focolare domestico. I famuli potevano essere rappresentati dalla moglie, dai figli e più propriamente dai servi: tutti erano a servizio del pater familias, il capo della gens. Pertanto, il termine famiglia, in senso stretto e originario, significa: piccola comunità di persone che abitano nella stessa casa e che sono a servizio le une delle altre. In senso più ampio, che arriva ai giorni nostri, la famiglia rinvia all’insieme di persone legate da vincoli di sangue, da rapporto di parentela o affinità o da vincoli religiosi e/o legali quale il matrimonio.

I membri di una famiglia, quindi, sono dediti gli uni gli altri. Sono chiamati al servizio (o al ministero) reciproco per il bene di ciascuno e di tutti. Il padre e la madre sono a servizio l’uno dell’altra nella qualità di coniugi (simmetricamente) e, insieme, allo stesso tempo, sono pronti ad accudire e crescere i loro figli (asimmetricamente). Anche questi ultimi, recependo e respirando il dono affettivo ed etico di cui i genitori li fanno partecipi, si predispongono, a loro volta, a essere a servizio tra loro e verso la coppia genitoriale. La ministerialità è al cuore del senso e del significato originario attribuibile a ogni famiglia umana. A livello linguistico, infatti, il vocabolo “famiglia” racchiude e restituisce la profondità dell’essere a disposizione dell’altro come “dono”: ciascun membro (o famulo) si dona agli altri e riceve in dono il servizio amorevole da parte degli altri.

Proseguendo con l’esplicazione dei termini, anche il sostantivo “servizio” o il verbo “servire” andrebbero riscoperti nella loro autenticità etimologica e riconnessi con il termine famulo e familia. “Servire” è legato al verbo “custodire”, inteso come azione che mira a guardare-osservare. Il latino servus corrisponde formalmente alla parola iranica haurvo che significa guardiano. E la radice più antica di servus (che risale alla forma primitiva swer, wer-ser) rimanda a: osservare, osservazione. Il passaggio da osservatore e guardiano a schiavo, deriva dai successivi rivolgimenti antropologici e politici avvenuti nella famiglia latina. Il famulo, dunque, os/serva, e serve. E dona.

In famiglia, pertanto, ciascun membro osserva e custodisce l’altro. Il dono reciproco è la norma.  

 

2. La famiglia secondo la prospettiva psico-sociale

Ma, al di fuori dell’etimologia, come dobbiamo intendere la famiglia? Su cosa si basa? A cosa serve nella nostra vita? Fra le tante, la descrizione più semplice ed efficace in campo psico-sociale, è che la famiglia dice «chi io sono» e lo dice non in qualsiasi modo ma nel modo che le è proprio.

Essa è la base dell’identità e dell’autostima di ciascuno/a, struttura l’esistenza, plasma i legami, inserisce nei circuiti della comunicazione emotiva, affettiva e interpersonale e favorisce l’accesso all’ambiente sociale. Affetto, amore, empatia e pro-socialità, rispetto, etica e senso della giustizia e fedeltà si incominciano a sperimentare e si sviluppano all’interno della famiglia.

Si potrebbe obiettare: ma anche altri gruppi sociali (come, ad esempio, la scuola o le associazioni) provvedono a soddisfare questi compiti di sviluppo! Sì, ma non nel modo in cui ciò accade in famiglia, che rappresenta un unicum fatto di relazioni con i genitori, con i fratelli e le sorelle, e con la costellazione della famiglia allargata (composta dai nonni, gli zii, i cugini…). Si tratta di una modalità molto diversa (per natura e non per cultura) rispetto a qualsiasi altro rapporto affettivo o di altra natura (“diverso” vuol dire che è “unico”, non che è migliore o peggiore di altri).

Quando diciamo che la famiglia è la cellula fondamentale della società dalla quale non si può prescindere, intendiamo dire, in primo luogo, che il modo in cui in famiglia, e non altrove, avviene la formazione dell’identità delle persone è imprescindibile per il buon funzionamento della società, senza il quale essa stessa sarebbe infiacchita e che da se stessa non potrebbe procurarsi. Per questo affermiamo che è la famiglia a generare la società, che la società non può non riconoscere che è preceduta dalla famiglia e, quindi, non può che promuoverla e difenderla.

Ma dove è lo specifico della famiglia nel dire «chi io sono»? Quale opportunità specifica offre?

Una risposta la troviamo nel concetto di differenza. La differenza è la fonte stessa dell’esistenza dell’essere umano. Senza imparare la differenza, «chi sono io?» non ha risposta. La risposta «sono come gli altri» non basta. Qualunque tipo di maturità si gioca nella differenza e non nell’uguaglianza. Se non ci fosse la differenza, l’io non respirerebbe più e di conseguenza non ci sarebbe storia, cultura, società. Se una persona sta in piedi non è perché è uguale agli altri ma perché ha trovato un suo equilibrio interno, cioè ha aumentato la sua differenziazione. Se le basta essere come gli altri, va in confusione.

Proviamo a scendere nello specifico e tentiamo di recuperare una definizione.

La famiglia è un’organizzazione (i suoi membri si organizzano per garantire un reciproco servizio, cure e accudimenti), come lo sono tutti i sistemi e i gruppi sociali. Ciò che primariamente deve organizzare sono le differenze. Secondo la psicologia sociale e dei legami familiari, essa è quell’organizzazione specifica che lega e tiene insieme le differenze originarie e fondanti dell’umano. Le differenze inevitabili che la famiglia pone in essere riguardano i generi (maschile e femminile), le generazioni (genitori e figli) e le stirpi (l’albero genealogico materno e paterno), dove in ognuna di esse uguaglianze e differenze costituiscono i due poli del legame unico fra le persone. Tale organizzazione si avvale di una gerarchia e di una struttura interna che metta la famiglia in grado di interagire con l’ambiente esterno e di raggiungere come obiettivo intrinseco la generatività. Organizzare assume, perciò, il significato specifico di «trasformare la diversità in unità, senza per questo annullarle, significa garantire la continuità e l’identità, senza vanificare il cambiamento e la molteplicità, significa porre dei vincoli alla complessità, stabilire una direzione alla varietà». Dunque, che cosa organizza il «sistema» famiglia?

Alla famiglia spetta il compito di organizzare le relazioni primarie che connettono le differenze cruciali che riguardano la natura umana. Organizza le differenze di genere, di generazione e di stirpe (sia sul versante paterno sia su quello materno) ed esprime e produce legami sociali (legame famiglia-comunità). Il tratto peculiare che consente di distinguere ciò che è famiglia da ciò che non lo è, coincide proprio con la specificità relazionale. Non ogni gruppo umano, infatti, anche se forte è coeso al suo interno, può equipararsi alle relazioni di tipo familiare.

Per cogliere, allora, l’identità che circoscrive la famiglia in sé stessa, occorre individuare i tipi di legame che la connotano strutturalmente, ovvero il legame tra generi diversi (maschile e femminile), e quello tra generazioni e stirpi. Due, pertanto, gli assi relazionali della famiglia: quello coniugale e quello parentale-filiale. La relazione coniugale si basa sulla differenza di genere (cioè dell’identità socioculturale del sesso maschile e femminile) e rimanda al riconoscimento del proprio limite personale e alla necessità dell’altro/a (reciprocità sessuale e psicologica). La relazione parentale-filiale implica, invece, la differenza di generazione e la conseguente responsabilità di quella che precede su quella che segue. Il termine parentale ingloba sia i genitori (nel loro rapporto con i figli), sia la più ampia rete di parentela costituita dai rapporti con le famiglie di origine dei coniugi, e quindi con le relative stirpi.

L’obiettivo ultimo che guida la famiglia come organizzazione è la generatività, sia degli individui sia dei legami. Il concetto di generatività è qui inteso in un senso che supera la procreazione: sicuramente la contempla ma vi comprende, allo stesso tempo, la produttività e la creatività. La famiglia non si limita a procreare e a riprodurre (come accade nel mondo animale), ma genera, elargisce forza umana, cioè umanizza ciò che da lei nasce e ciò che in lei si lega. La capacità di generare che appartiene alla famiglia non si esprime necessariamente nel generare figli naturali, può includere anche i figli che vengono adottati e/o affidati, e, più in generale, la capacità di mettere a punto progetti di rilievo per la crescita di nuove generazioni anche sul piano sociale e culturale. La famiglia, in sostanza, è in grado di generare un bene relazionale attraverso la sua struttura simbolica. Erikson considera la generatività come ciò che connota l’essere adulto in quanto tale (indipendentemente dall’avere o non avere figli), ovvero «la preoccupazione di creare e di dirigere una nuova generazione» che si esplica «nella capacità di prendersi cura delle persone, dei prodotti e delle idee verso cui si è preso un impegno» e che si contrappone alla stagnazione, che coincide con il ripiegamento sterile su di sé.

2.1. Relazione e non solo interazione

Abbiamo appurato che la famiglia si presenta come un soggetto intessuto di relazioni che genera legami favorendo connessioni reciproche tra le persone che ne sono coinvolte. La relazione, a questo riguardo, va tenuta distinta dall’interazione: i due termini, spesso usati come sinonimi, non hanno esattamente lo stesso significato. L’interazione si riferisce ad un’azione svolta tra le parti, a ciò che si può osservare nel «qui ed ora». In altre parole, indica ciò che i soggetti costruiscono nell’azione comune, quindi gli scambi e le comunicazioni che si effettuano in famiglia nel procedere della vita quotidiana. È anche il livello di osservazione dal quale i ricercatori devono partire per studiare il mondo della famiglia. Ma non ci si può fermare qui. Le relazioni familiari non possono essere ridotte solo a una sequenza di azioni reciproche da osservare e misurare.

La relazione familiare, «sia nei suoi aspetti di legame (re-ligo) che di riferimento di senso (re-fero), rimanda ad altro rispetto a ciò che si osserva, rimanda a un legame che precede l’interazione in atto e ne costituisce il contesto significativo». Essa non si può osservare direttamente come accade per l’interazione, ma si può soltanto inferire. Tenendo conto di tale livello inferenziale, dobbiamo aprirci all’idea che le numerose interazioni che accadono nella routine di ogni famiglia possano essere comprese appieno solo se si considera che i singoli membri parte del nucleo familiare sono profondamente legati a monte, condividono, cioè, una storia comune che li precede e li coinvolge.

La relazione è, dunque, ciò che lega, anche inconsapevolmente, i membri della famiglia tra loro. È ciò che lega e accomuna mariti e mogli, genitori e figli, è la loro storia familiare e la storia della cultura nella quale sono inseriti, ovvero tutto ciò che si è sedimentato e si sedimenta continuamente in quanto a valori, miti, riti e modelli di funzionamento. La relazione, dunque, riflette una matrice antropologico-psichica e presenta una dimensione intergenerazionale: una fra le sue più importanti caratteristiche, che la distingue dall’interazione nel «qui e ora», è l’idea dei tempi lunghi o, meglio, la connessione tra i tempi. Ecco perché il livello di analisi relazionale cerca di ricostruire un intreccio, una trama che restituisca la dimensione gruppale della famiglia e il suo essere sicuramente più della somma delle parti. La qualità dei legami tra i membri della famiglia e il tipo di scambi tra le generazioni costituiscono gli aspetti peculiari del livello relazionale. Essi vengono allo scoperto soprattutto nei momenti critici delle transizioni del ciclo di vita. In forza di questa peculiarità «sistemica» della relazione famigliare, la famiglia non ha rivali.

 

 

3. Accogliere l’accoglienza: ministero e missione in Abramo e Sara

La cornice che abbiamo tracciato ci aiuta a fare un passo in avanti. La ministerialità della famiglia si coglie in modo specifico all’interno della Sacra Scrittura.

Un esempio calzante è rappresentato da Abramo, Sara e i tre personaggi misteriosi, così come riportato in Gn 18, 1-16.  

Contesto. I capitoli 18 e 19 del libro della Genesi sono accomunati dal tema della distruzione delle città di Sodoma e Gomorra. Centro di questa narrazione sono eventi accaduti in un lasso di tempo inferiore alle 24 ore: dal pomeriggio del primo giorno all’alba del giorno successivo. La distruzione di queste due città viene anticipata già al capitolo 13 (versetto 10), con la motivazione seguente: la malvagità degli abitanti e il loro essere peccatori nei confronti di Yhwh.

Il racconto precedente (Gn 17, 1-22) ha lasciato Abramo in uno stato di smarrimento e confusione. Dalla narrazione apprendiamo che egli ha un figlio di nome Ismaele, nato dalla sua unione con Agar, la schiava di sua moglie Sara. Lei e Abramo erano due coniugi ormai anziani. Per di più, Sara era sterile e rischiava di non garantire a suo marito la discendenza promessa dal Signore. Per questo motivo, accompagna la schiava da Abramo e lo invita a vivere con lei l’intimità sessuale. Così nasce Ismaele. Ma la promessa della discendenza non coincide con la sua nascita. Ci vuole tempo.

Su diretta richiesta di Dio, Abramo procederà a circoncidere sé stesso, Ismaele e gli altri membri della famiglia: in questo modo, tutti incidono sul loro corpo il segno inequivocabile dell’appartenenza a Ywhw. Dio, però, ribalta nuovamente le certezze di Abramo. A differenza di quanto atteso e sperato, gli dice che stabilirà la sua alleanza generativa non con Ismaele ma con un figlio che non è ancora nato e di cui Abramo ha soltanto la promessa. Forse ha bisogno che venga confermata.

 

 

 

 

I tre ospiti. Il testo biblico ci introduce in una scena inattesa e carica di mistero: «Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: “Mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo”. Quelli dissero: “Fa’ pure come hai detto”. Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: “Presto, tre sea di fior di farina, impastala e fanne focacce”. All’armento corse lui stesso, Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono» (Gn 18,1-8).

Sebbene il lettore, sin dall’inizio del racconto, viene a conoscere che gli ospiti accolti da Abramo costituiscono, in realtà, la presenza stessa di Yhwh, Abramo e Sara restano esclusi da questa informazione. Abramo, in particolare, non vede avvicinarsi altro che “tre uomini”. Tali visitatori, al v. 13, vengono nuovamente identificati dallo stesso narratore con Yhwh. Sempre in relazione all’ambiguità circa l’origine e la natura dei pellegrini ospitati da Abramo, il testo fa emergere delle particolarità: i verbi riferiti ai tre ospiti sono coniugati al plurale ma anche al singolare, come se, nella loro totalità, i tre uomini non costituissero che un’unica personalità.

Questa prima parte del racconto si concentra su un’azione particolare: l’accoglienza ospitale di Abramo. Un’intera famiglia (Abramo, Sara e i servi/famuli) si prodiga (con fretta e gioia) per rendere piacevole e riposante la permanenza di questi tre ospiti misteriosi, giunti nell’ora più calda della giornata. L’ambientazione, i dialoghi e i movimenti si snodano tra due luoghi altamente simbolici, dando vita a due scene distinte: la quercia e la tenda. La quercia, nella tradizione biblica, indica “sacralità” (separazione) e rimanda a eventi importanti per il popolo di Israele: basti ricordare Giacobbe che, sotto la quercia di Sichem, sotterrò tutti gli dei stranieri che la famiglia possedeva e quanti erano con lui rifiutarono l’idolatria (Gn 35, 2-4); oppure Debora, la nutrice di Rebecca, che viene sepolta ai piedi di una quercia (la quercia del pianto, Gn 35,8). Guarda caso, i tre uomini, simili ad angeli, “appaiono” alle querce di Mamre. Questo dettaglio inizia a far respirare al lettore (e allo stesso Abramo) una presenza misteriosa e solenne. Il narratore ci informa (escludendo dalla comunicazione Abramo e Sara) che si tratta del Signore: Egli sta facendo visita al suo popolo per riportare ordine e pace in due luoghi noti: Sodoma e Gomorra. In queste due città, l’accoglienza ospitale ha lasciato il posto a una sfrenata dissolutezza, al ripiegamento di ogni persona sui propri bisogni ed esigenze, a una forma di narcisismo patologico che tende a racchiudere il dono dell’altra persona in una prospettiva di funzionalità. Sodoma e Gomorra si erano inaridite e attorcigliate su loro stesse. In nome di una finta libertà che li rendeva schiave.

La tenda, al cui ingresso è seduto Abramo, è aperta dai quattro lati, segno di accoglienza totale e incondizionata. Chiunque, pellegrino o viandante che fosse, da qualsiasi direzione provenisse, aveva la possibilità di trovare questa tenda “aperta”, accogliente e pronta a garantire conforto e ristoro: attraverso il cibo, i gesti e le attenzioni di rispetto. Il testo precisa che Abramo sostava all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Difficilmente un pellegrino passava a quell’ora. Per colui che ospitava, inoltre, era il momento meno opportuno per ricevere visite. Eppure, il comportamento di Abramo e del resto della comunità mostra che l’accoglienza ospitale non ha né ore né programmi. L’ospite si accoglie quando arriva. In ogni momento.

Il protagonista di questa prima scena è Abramo. Sua moglie Sara resta in ombra, all’interno della tenda. Questo suo essere “dietro le quinte” potrebbe indicare uno stato d’animo preciso: Sara pare avvolta da un “velo” di profonda tristezza. È amareggiata. Il suo essere ormai sfiorita e avizzita (non aveva più il menarca, infatti) acuisce la sofferenza legata alla sua sterilità. Nonostante la promessa più volte ribadita dalla Parola del Signore, lei non era stata in grado di donarsi a suo marito quale “grembo accogliente” della vita. La sua partecipazione alla generazione di una nuova stirpe era fallita. Il suo utero appariva simbolo di “chiusura”. Non era in grado di accogliere la vita. Il suo tentativo di farsi sostituire dalla schiava Agar aveva complicato ulteriormente le cose: l’unione intima tra Agar e Abramo aveva umiliato la sua condizione di moglie e donna; la nascita di Ismaele, per di più, aveva sancito l’inospitalità del suo grembo. Come poteva “accogliere” Sara?

Entriamo nella trama narrativa. Il racconto comincia con la descrizione di una nuova apparizione: “Il Signore apparve”, letteralmente “si fece vedere”, si mostrò ad Abramo (questa è già la terza volta). Il narratore ci dice che siamo di fronte ad un’apparizione divina. Abramo e Sara, però, lo scoprono gradualmente. All’inizio non comprendono di essere dinanzi al Signore. Dio, infatti, si avvicina a loro nel vissuto quotidiano, in una giornata “normale”, improvvisamente ma senza associarsi a gesti eclatanti (ricordiamo la teofania del Sinai, dove il Signore si manifesta con fumo, lampi e suono assordante di trombe?): si presenta come un semplice visitatore. Un passante come tanti. E visitando l’ordinario, Dio lo rende straordinario colmandolo della sua presenza. Ma l’aspetto misterioso, indecifrabile (non decodificabile) agli occhi umani, arriva “prima” di Lui e della sua straordinarietà. Abramo percepisce un “di più” in questi pellegrini che lo apostrofano. Sembra “assorbire” (restandone abbagliato) il loro essere in relazione e “cogliere” ciò che circola nel loro modo di porsi e atteggiarsi. Possiamo ipotizzare che Abramo fosse rimasto colpito dalla loro “accoglienza”. Questi tre personaggi, prima ancora di essere accolti, accolgono Abramo e la sua famiglia. Cosa vuol dire? Vuol dire che li riconoscono, cioè li mettono di fronte alla loro natura più vera, alla loro solida identità (qui può osservarsi il vivido contrasto tra Abramo e gli abitanti di Sodoma e Gomorra): essere a servizio gli uni degli altri e fare di questa modalità relazionale la base della socialità. E tale intuizione (non ancora giunta a piena consapevolezza) è rivelata da tutti i suoi gesti successivi. Vediamo cosa succede: Abramo, quando sopraggiungono gli ospiti, è seduto all’ingresso della tenda. “Alzò gli occhi ed ecco”: ogni manifestazione di Dio crea sorpresa. Abramo vede tre uomini. La loro apparenza non ha nulla di speciale. È strano che viaggino in quel momento così caldo della giornata. Piuttosto ci si dovrebbe riposare. Eppure Abramo “corse” loro incontro e si “prostrò fino a terra”. I due verbi sottolineano l’accoglienza ospitale e genuina di Abramo. Prende l’iniziativa, corre verso di loro, come si fa per un membro della famiglia che non si vede da molto tempo (vi è una stretta somiglianza con la parabola del figlio prodigo e del padre misericordioso). Non chiede le loro generalità, non si preoccupa della destinazione verso la quale sono diretti. Corre e si prostra fino a terra. Il prostrarsi è un gesto di profondo rispetto. E quando è Dio a essere l’oggetto di questo verbo significa che si sta “adorando” Dio, il Signore, Adonai (prostrati adoriamo solo Dio). Abramo, con il suo gesto di rispetto verso questi tre uomini, adora senza saperlo Colui che essi rappresentano. Accoglie presso la sua tenda l’essenza di Chi accoglie. Il suo gesto nasconde (e rivela allo stesso tempo) l’intuizione di aver incontrato Chi accoglie “per prima” manifestandosi (apparendo) all’improvviso. L’Accoglienza (con la A maiuscola) lo porta a correre e a prostrarsi. Abramo riconosce che qualcuno sta comunicando la sua vocazione. L’effetto di questo incontro/apparizione sulla sua persona è immediato. Rivolge loro la parola. Augura il benvenuto al singolare, parlando forse con Colui che riconosce come il capo dei tre. Il testo gioca continuamente su un doppio senso. Si può intendere tutto come se i visitatori fossero uomini, ma allo stesso tempo come se fosse Dio. Abramo crede ancora di parlare con tre uomini, ma il lettore, che conosce la vera identità dei visitatori, sa che egli parla con Dio. Abramo si rivolge a uno di loro dicendo “Mio Signore”, che è un titolo di rispetto per il capo dei tre, ma anche un titolo per Dio. questa ambiguità crea suspence e attesa. Cosa succederà mai? Abramo e Sara riconosceranno nitidamente che l’Amore accogliente è lì davanti a loro? Abramo chiama se stesso “tuo servo” perché vuole mettersi al servizio dei visitatori (in pieno spirito familiare, traduce la gioia dell’incontro con l’Accoglienza volendo a sua volta essere accogliente e a servizio di chi l’ha accolto per prima). Ma in realtà egli è il “servo” di Dio (titolo che gli verrà riconosciuto più tardi: Gn 26,24). Ecco: vediamo come si muove l’interiorità di Abramo. Si autodefinisce “servo” di qualcuno che non sa ancora bene chi è. L’intuizione gli fa compiere dei gesti anticipatori, quasi profetici. Tempo dopo, infatti, sarà Dio a chiamarlo “servo”, sigillando nella sua vita la bellezza del dono. Da Dio si riversa all’uomo. E l’uomo Abramo si rende testimone del servizio. All’interno della sua famiglia, Abramo renderà visibile la ministerialità affidatagli da Dio. E l’intero suo nucleo di affetti diventerà testimonianza di questo essere “servi donanti” in modo reciproco. 

L’espressione “se ho trovato grazia ai tuoi occhi”, più che una domanda è una formula solenne che assume un significato più profondo. Abramo chiede se è degno di essere gradito a Dio (come fece Noè). Guardate come si osserva la distanza tra intuìto e non ancora conosciuto. Abramo crede di accogliere degli uomini, ma il suo comportamento ci sta rivelando che, senza saperlo ancora, accoglie Dio. E lo accoglie con solennità, perché percepisce di essere stato accolto a sua volta.

Dopo la parola di benvenuto al singolare, Abramo si rivolge a tutti e tre gli ospiti al plurale. Offre loro acqua da bere e per lavarsi i piedi e li invita a riposarsi all’ombra della quercia. Promette un po’ d’acqua e un boccone di pane: un eufemismo rispetto all’abbondanza che spetta ai visitatori. L’invito si trasforma in servizio cordiale, attento e scrupoloso, che ristora i tre ospiti. Le ultime parole di Abramo, prima del cambio di scena, sono: “è per questo che voi siete passati dal vostro servo”. Abramo non sa che essi sono venuti da lui per tutt’altro scopo. Non si rende conto che ciò che offre loro è ben poco in confronto a quel che essi offriranno a lui. I tre visitatori accettano l’invito. E il racconto passa al pranzo. La descrizione della preparazione del pranzo evidenzia che si deve fare tutto molto presto. In fretta. Abramo “si affrettò”, disse a Sara: “Presto”, egli stesso corse e il servo “si affrettò”. Il narratore si sofferma sulla qualità del pasto. Abramo prende del “fior di farina”, cioè la farina scelta per le offerte cultuali, e cerca un vitello “tenero e gustoso”. Anche la quantità di cibo è notevole. Tre sea o staia (uno staio corrisponde a otto litri) e un vitello intero per tre persone fanno di questo pranzo un banchetto sontuoso, sostanzioso e abbondante. Ci si potrebbe interrogare sull’ospitalità di Abramo. Dà ordine, sia ai servi sia a Sara, di “preparare”. Poi, lui stesso, fa la sua parte condividendo i doveri familiari. Di nuovo, riappare in modo nitido il quadro di una famiglia (insieme di famuli) che si mette a disposizione e “serve”. Ciascuno/a con il suo compito, a seconda delle abilità, delle capacità e del ruolo assunto e portato avanti nel gruppo. La dimensione dell’“essere servizievoli” di questa piccola comunità familiare si allarga, estendendo il suo raggio benefico di applicazione: dalla cura vicendevole e reciproca, alla base del suo DNA, compie un passo in avanti dedicandosi all’accoglienza dei visitatori.

La ministerialità diventa missione: i tre uomini, con la loro visita improvvisa, accolgono la famiglia di Abramo, la riconoscono in modo profondo e le permettono di consolidare la sua identità; questo incontro o apparizione divina produce immediatamente, in Abramo e nei componenti del suo clan familiare, l’esplicazione della loro chiamata ad accogliere. Subito si mettono al servizio di chi li ha accolti. Dimostrano che la loro missione è portare a tutti l’accoglienza che hanno ricevuto in prima battuta. Certo, colpisce il fatto che soltanto Abramo rimanga con gli ospiti, servendoli e restando in piedi davanti a loro, mentre Sara resta in cucina. Chiusa nella sua amarezza. Dopo i rapidi preparativi, dunque, la calma torna a ritagliarsi uno spazio all’interno della vicenda. Il pranzo è finalmente servito. Abramo, in piedi come abbiamo detto, si rende disponibile ad aiutare i visitatori per le loro necessità. Non sa ancora di quale annuncio i tre ospiti si renderanno protagonisti.   

La promessa che ritorna. La seconda parte del racconto (Gn 9-16) è ricca di dialoghi e si svolge principalmente nella tenda. Adesso è Sara ad assumere il ruolo di protagonista, mentre Abramo resta in ombra. Egli ha superato la prova, si è mostrato ospitale verso i forestieri. Il pranzo è finito e comincia la conversazione che rivela il vero motivo di quella visita. Abramo e Sara stanno per scoprire la vera identità dei visitatori: «Poi gli dissero: “Dov’è Sara, tua moglie?”. Rispose: “È là nella tenda”. Riprese: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio”. Intanto Sara stava ad ascoltare all’ingresso della tenda, dietro di lui. Abramo e Sara erano vecchi, avanti negli anni; era cessato a Sara ciò che avviene regolarmente alle donne. Allora Sara rise dentro di sé e disse: “Avvizzita come sono, dovrei provare il piacere, mentre il mio signore è vecchio!”. Ma il Signore disse ad Abramo: “Perché Sara ha riso dicendo: Potrò davvero partorire, mentre sono vecchia? C’è forse qualche cosa d’impossibile per il Signore? Al tempo fissato tornerò da te tra un anno e Sara avrà un figlio”. Allora Sara negò: “Non ho riso!”, perché aveva paura; ma egli disse: “Sì, hai proprio riso”. Quegli uomini si alzarono e andarono a contemplare Sòdoma dall’alto, mentre Abramo li accompagnava per congedarli». (Gn 18, 9-16)

La prima parola riguarda Sara e rappresenta una domanda retorica: “Dov’è Sara, tua moglie?”. Sara ha preparato il pranzo. Loro sanno benissimo dove si trova. Diciamo che la domanda permette l’avvio del dialogo. Strano è il fatto che i tre uomini conoscano il nome di Sara. Comincia così a svelarsi il loro essere uomini “non comuni”. Il racconto continua al singolare: “Tornerò da te fra un anno”. L’ospite misterioso rende maggiormente palese il suo carattere divino. Questo “ritorno” non necessariamente va letto in senso letterale. Non è detto che ritorni a fare una nuova visita. Piuttosto, Dio verrà con la sua Grazia per realizzare ciò che a breve prometterà. La visita di Dio avverrà “al tempo della vita”: questa espressione viene spesso tradotta con “fra un anno”, o più precisamente con “al tempo del rinnovamento”. Quest’ultima variante rinvia alla primavera o all’autunno, quando le piogge ridanno vita alla natura, o ai nove mesi della gravidanza.

La promessa annunciata dai tre uomini: “Sara, tua moglie, avrà un figlio”, sviluppa la promessa anteriore di Dio (12,2; 13,16; 15,4) e conferma quella del racconto precedente (Gn 17,21). L’identità del visitatore non lascia più alcun dubbio. Nel racconto precedente, Dio diceva: “Un figlio ti darò da lei” (17, 16.19.21). Qui, invece, la promessa è incentrata sulla madre: essa avrà un figlio! La conversazione si consuma tra i tre visitatori e Abramo, ma “Sara stava ad ascoltare, dietro di lui”. Prima della reazione ironica di Sara, il narratore riporta alcuni elementi inequivocabili: il problema dell’età di entrambi i coniugi, l’assenza delle mestruazioni in Sara e, dunque, l’impossibilità “umana” di partorire. Il lettore sapeva già che Sara era sterile e anziana, ma il testo precisa che ha passato la menopausa.

Un uomo vecchio e una donna in menopausa ricevono la promessa di un parto felice. Un’assurdità che non può non suscitare ironia. Umanamente, la reazione di Sara è comprensibile. Come già Abramo aveva riso (17,17), così anche Sara (che stava dietro) “rise dentro di sé”. E come lo stesso Abramo aveva parlato tra sé e sé, così anche Sara rumina mentalmente: “Proprio adesso che sono vecchia dovrò provare piacere…”. Il piacere di avere finalmente un figlio, di accogliere la vita per donarla al mondo, o di avere il godimento dei rapporti sessuali con mio marito che è vecchio?

Dio aveva reagito al dubbio di Abramo riaffermando la promessa (17,19-21). Reagisce anche alla dubbiosa perplessità di Sara. Lo dice ad Abramo, ma il discorso è rivolto a Sara (che stava dietro). Abramo cessa di parlare. La protagonista è sua moglie. Dio si meraviglia del dubbio di Sara: “C’è forse qualche cosa d’impossibile per il Signore?”. Dio promette e fa ciò che umanamente è impensabile. Il racconto giunge al suo apice: l’impossibile può diventare possibile. Credere in ciò è la vera fede: lasciarsi accogliere e accogliere l’accoglienza. Così possiamo riconoscerci figli di una promessa. Dio, infine, dimostra di conoscere i pensieri segreti degli uomini e delle donne. Sara ha difficoltà a credere, però, imbarazzata e impaurita, si difende smentendo di aver riso. Il Signore non ammette finzioni: “Si, hai proprio riso!”.

Come è evidente, il racconto non nasconde il lato umano dei protagonisti. Abramo aveva mentito a proposito dell’identità di sua moglie (12,13), anche Sara smentisce (o mente), nega di aver riso. Nessuno dei due è perfetto. Sara agisce come suo marito e anche come Adamo ed Eva (3,10) per “paura”. Si rende conto che i visitatori non sono esseri comuni, ma divini. La smentita di Sara (“Non ho riso”), come abbiamo precisato, è contraddetta da: “Hai proprio riso”. Sara non può negare: ha riso eccome. Il dialogo continua a giocare sul termine “riso, ridere” e conferma la certezza che Sara metterà al mondo un figlio che sarà chiamato Isacco (“egli ride”): «Abramo chiamò Isacco il figlio che gli era nato, che Sara gli aveva partorito…Sara disse: “Motivo di lieto riso mi ha dato Dio: chiunque lo saprà riderà lietamente di me”» (Gn 21, 3.6). A risuonare per ultimo è il riso allegro del piccolo Isacco, perché incarnato nel suo nome è lo stesso riso rassicurante di Dio che spazza via dubbi e perplessità. L’inizio del popolo di Dio è legato a una risata segreta che Dio prima provoca e poi svela, ridendo di chi osa ridere di Lui. La reazione di Sara insinua che la fede può essere paragonata a una risata che ha due volti: il primo è il dubbio, durante il quale si ride amareggiati, magari ironizzando su Dio sentito lontano e sordo al grido umano; il secondo è il riso gioioso, davanti alla promessa divina adempiuta, che rende stolto il sarcasmo umano che vuole sfidare Dio. Dio, nel suo agire, sceglie tempi inattesi, le persone più improbabili, i modi più imprevedibili. Così fa storia con noi. Per essere il Dio con noi!

Dopo il dialogo, i tre uomini si alzano. Questa annotazione conclude il racconto e introduce il seguente.

Abramo e Sara, alla fine del lungo periodo, credono. Accolgono Chi è in grado di accogliere e di svelare nitidamente la loro identità familiare. Il “fare per” cede il posto al “ricevere da”. Il ciclo era cominciato con la promessa del Paese e poi di quella della benedizione della discendenza. Entrambe, però, tardavano a realizzarsi. Per questo, Abramo e Sara ricorrono a un primo espediente umano: adottano Eliezer. Non sono sintonizzati sull’accoglienza della loro ministerialità. Pensano a soddisfare soltanto un loro bisogno, quasi ignorando la volontà di una promessa. Dio interviene: l’erede non sarebbe stato Eliezer, ma un figlio del sangue di Abramo. I due coniugi, allora, sempre titubanti e dubbiosi della Parola di Dio e scostanti nell’accogliere la Sua volontà, decidono di coinvolgere Agar, la schiava. Lei e Abramo si uniscono in intimità. Tale unione genererà Ismaele. Verrà circonciso, ma nemmeno lui sarà il figlio dell’alleanza: Dio promette che Sara avrà un figlio. Come per negare le due iniziative umane, Dio promette due volte, una volta più direttamente ad Abramo e una seconda volta anche a Sara. Viene detto due volte che questo figlio nascerà l’anno successivo. Non resta che ridere.

Solo all’apparizione dei tre uomini qualcosa cambia. Il dono dell’accoglienza portato da Dio finalmente svelerà il portato accogliente della famiglia di Abramo. Abramo e Sara, finalmente, si riconosceranno creature di Dio. Si lasceranno accogliere da un Dio Amore che accoglie e dona, e la loro adesione piena di fede li tramuterà da aridi e autoreferenziali a generativi e oblativi. Pronti a dare vita, seppure in tardissima età, al loro figlio e a custodire (servire, osservare) la loro discendenza. Abramo e Sara con Isacco diventeranno grembo accogliente e saranno una famiglia. Insieme si porranno a servizio gli uni degli altri. E poi, si apriranno alla missione di testimoniare l’Amore accogliente di Dio a chiunque incontreranno.

4. La famiglia e il suo ministero

La famiglia cristiana è chiamata a svolgere un ministero specifico, a diretto contatto con il mistero che la supera e la precede. L’icona biblica appena meditata lo lascia intravedere con chiarezza. Adesso, quindi, è arrivato il momento di capirne di più. Di entrare con decisione nel senso della ministerialità. Partirei da una domanda articolata: qual è il compito specifico (o la missione specifica) che spetta alla coppia e alla famiglia cristiana? Cosa portano in più, cosa le distingue rispetto a una coppia che sceglie di vivere un’unione civile o una convivenza, oltre, chiaramente, all’amore, al rispetto e alla coesione, elementi presenti in ogni legame affettivo?  

Per rispondere a tali quesiti, dobbiamo puntare il focus della nostra capacità critica sul matrimonio. Quindi: sull’unione d’amore tra un uomo e una donna e sulla loro generatività. La missione e la ministerialità della famiglia scaturiscono, infatti, dalla grazia di questo sacramento. Qui possiamo scorgere a cosa la famiglia sia davvero chiamata. Gli sposi che celebrano il loro matrimonio in Chiesa “contengono e manifestano”, simbolicamente, l’unione di Cristo con la Chiesa, la nuova alleanza (n. 4, Rito del Matrimonio). Abbiamo sentito spesso questo enunciato di teologia sacramentaria: ai corsi prematrimoniali, alle catechesi familiari, ai convegni di pastorale. Ma cosa significa esattamente? Non è semplice spiegarlo. Si rischia di banalizzarlo o di astrarlo, perdendone lo spessore e l’originalità.

Proviamoci. In primo luogo, riconosciamo che l’amore che tiene uniti i due sposi è speciale: è un amore che “contiene”, è un amore di “donazione reciproca” che va assimilato a quello di Gesù che si dona sulla croce per tutti noi. Un amore che dice la comunione trinitaria. Gli sposi, infatti, «accolgono e trasmettono il dono della salvezza che viene da Cristo» (n. 5, Rito del Matrimonio). Ma a chi lo trasmettono? Solo ai figli? O anche ai figli degli altri, nel caso in cui la coppia sia impegnata al catechismo? O ad altre coppie di sposi, se prestati all’animazione dei corsi prematrimoniali? E come lo trasmettono? Come fanno a diffondere nel mondo «luce, pace e gioia»? E che tipo di luce donano gli sposi? A chi la donano? Sono partecipi dell’unione di Cristo con la Chiesa solo per farsi luce tra marito e moglie, tra genitori e figli, oppure c’è qualcosa in più, c’è una missione “scritta” dentro di loro? Al n. 88 del Rito del Matrimonio viene riportata questa espressione: «Diventino vangelo vivo tra gli uomini». Come? Devono agire come i preti? Oppure esiste un modo diverso, specifico per la coppia-famiglia? Al n. 93, inoltre, si legge: «Siate testimoni del dono della vita e dell’amore che avete celebrato». Attenzione, facciamo un passo in più. Gli sposi celebrano una vita, non solo quella di un uomo e una donna che si baciano; gli sposi celebrano un amore che non è soltanto il loro, ma è anche l’amore di Dio per l’umanità e di Cristo per la Chiesa. Questa celebrazione nuziale, dunque, ci dice la missione e il servizio a cui la famiglia è chiamata, la vita e l’amore di cui gli sposi sono stati rivestiti e che sono chiamati a esprimere.

In sostanza: il matrimonio ha la stessa finalità dell’ordine sacro (n. 32, Evangelizzazione del matrimonio: «Il matrimonio (come l’ordine sacro) ha una diretta finalità di costruzione e dilatazione del popolo di Dio»). Ordine e Matrimonio, pur essendo due sacramenti distinti, condividono lo stesso obiettivo: fare una famiglia grande, costruire il popolo di Dio, la famiglia dei figli di Dio (tutti a servizio gli uni degli altri, così come Gesù ha insegnato e vissuto: ricordiamo la lavanda dei piedi?). Sempre nello stesso documento (Evangelizzazione del matrimonio) si legge, al n. 43: «Il patto coniugale è assunto nel disegno salvifico di Dio e diventa segno sacramentale dell’azione di grazia di Gesù per l’edificazione della Chiesa…Segno e strumento dell’azione del Salvatore». Proviamo a “diluire” meglio queste espressioni: Gesù ha assunto, ovvero fatto proprio, il patto coniugale. Ciò sta a significare che Egli continua la sua azione salvante di Amore attraverso il sacramento delle nozze. Nel sacramento matrimoniale c’è Gesù che continua a salvare. Non ha voluto assumere unicamente la modalità sacerdotale per continuare a trasmettere la salvezza; ha voluto fare sua anche la coppia, la famiglia intera, per continuare a essere segno della salvezza, segno di questo agire di grazia di Gesù per costruire la famiglia grande. Dove c’è una casa di sposi cristiani, di genitori e figli credenti, lì c’è la presenza della grazia del Salvatore: una grazia capace di trasfigurare la stessa realtà umana, di purificarla e rinnovarla. Una coppia, lì dove vive, dove si trova, è presenza della grazia del Salvatore.

Se proseguiamo in questo orizzonte sorprendente, scopriamo un ulteriore aspetto sottolineato dal n. 4 del documento Comunione e comunità nella Chiesa domestica: «Nella celebrazione del sacramento del matrimonio (la Chiesa) genera le coppie come cellule vive e vitali del corpo di Cristo…dotate di carismi e ministeri propri, per una specifica missione dell’annuncio del Vangelo che salva». Il verbo “genera” indica una novità assoluta: vuol dire che dal sacramento deriva una missione specifica, un servizio ad hoc, che non coincide solo con quella di fare lo sposo e la sposa, il papà e la mamma (come può fare anche chi si è sposato solo civilmente). C’è un ministero proprio, una missione specifica che scaturisce dalla grazia. Una grazia che permea la realtà dell’essere sposo-sposa o genitori-figli, per realizzare con essa una missione specifica, un ministero proprio. Abbiamo mai messo in risalto questa missione e questo ministero? Ne siamo coscienti?

Non possiamo piangere sul sacramento del matrimonio, rammaricarci se la famiglia va a rotoli, o se le coppie entrano in crisi e si dividono, quando proprio noi cristiani non abbiamo ancora conosciuto (o non abbiamo conosciuto fino in fondo) il dono fuori dal comune che abbiamo ricevuto, questo tesoro prezioso sepolto sotto terra. Se questo tesoro viene costantemente ignorato, opacizzato, svalorizzato, la coppia non ne vive la bellezza autentica. Quindi: rischia di vivere all’interno di circuiti poveri, sterili, chiusi, a volte tenebrosi, e, allo stesso tempo, di privarsi del circuito d’amore trinitario che è collocato in essa, del circuito d’amore sponsale di Cristo con la Chiesa che è inserito in essa. Ovviamente, si parte sempre dal dato umano, non lo si tralascia mai. Ma poi la coppia credente, nella sua unione concreta, diviene segno e ripresentazione della comunione, dell’alleanza tra Dio e l’umanità. In essa, nel sacramento, nasce qualcosa che prima non c’era. C’è un evento.

Infine, non può essere dimenticata una “perla” contenuta in Familiaris Consortio (n. 50): «La famiglia cristiana è chiamata a prendere parte viva e responsabile alla missione della Chiesa in modo proprio e originale…La famiglia cristiana, che nasce dal sacramento del matrimonio, come immagine del patto d’amore di Cristo e della Chiesa, renderà manifesta a tutti la viva presenza del Salvatore del mondo e la genuina natura della Chiesa». Questo documento afferma che ogni coppia di sposi ha la vocazione a rendere presente Gesù in modo proprio (e diverso da quello dei preti). La famiglia, inoltre, è chiamata a dire la natura genuina della parrocchia. Per comprendere il ministro specifico degli sposi, dunque, dobbiamo conoscere la grazia del sacramento. E capire perché viene comunicata agli sposi. Fondamentale è cogliere il ruolo dello Spirito Santo: esso conduce a pienezza di vita una coppia di sposi, modifica, esalta, compie, ricrea lo stato precedente.

4.1. Sacramento permanente indica missione specifica

Gli sposi, con il sacramento delle nozze, entrano in una nuova situazione di vita, in uno status di vita nuovo. Si tratta di un sacramento permanente, è sempre sorgente viva a cui potersi abbeverare. Dice un grande teologo del sacramento del matrimonio, don Carlo Rocchetta, che: «la grazia del Sacramento porta con sé la consapevolezza della presenza permanente del Signore Gesù e del suo Spirito nella vita di coppia…La presenza del Risorto accompagnerà come un dono di grazia invisibile l’itinerario di vita degli sposi dal primo all’ultimo giorno di vita». Cristo è presente con gli sposi. Cosa facciamo per educarli a questa presenza permanente di Gesù nella loro vita di coppia? Il Catechismo della Chiesa Cattolica, inoltre, al n. 1613, precisa che il matrimonio è segno efficace della presenza di Cristo. Efficace lascia intendere che il segno rende qualcosa, fa, produce. Con il sacramento, Gesù rendendosi presente negli sposi, li coinvolge nella sua stessa missione. Se Gesù è con loro, non è per stare sotto l’ombra di un tetto, non è per proteggerli dalle malattie: è per continuare ad estendere in loro e con loro la sua missione. Dunque: con la loro semplice unità relazionale, marito-moglie, genitori-figli, sono chiamati a dire la novità “misteriosa” e “dirompente” di Gesù che ama a dismisura il mondo e la Chiesa. Agli sposi, a cui Paolo nella lettera agli Efesini si riferisce con l’espressione “mistero grande”, viene affidata una “missione grande”. E non di serie B, subordinata a quella dei preti. La famiglia tutta, quindi, è chiamata ad attivare la sua sensibilità spirituale, la sua capacità immaginativa e creativa, la sua passione d’amore, perché il mistero grande si traduca in missione altrettanto grande e significativa.  

4.2. Missione che si realizza in modo proprio e originale

Gli sposi non sono chiamati semplicemente a continuare la loro missione di singoli cristiani battezzati, ma a entrare in una modalità nuova, che corrisponde alla novità che è stata consacrata con il sacramento delle nozze: «La famiglia cristiana è chiamata a prendere parte viva e responsabile alla missione della Chiesa in modo proprio e originale, ponendo cioè a servizio della Chiesa e della società sé stessa, nel suo essere ed agire, in quanto intima comunità di vita e di amore». Quindi, non sono più solo i singoli a essere protagonisti, ma è una comunità, una coppia unita che si muove nella Chiesa, perché contiene un dono speciale, perché è stata consacrata la relazione, quindi è la relazione il nuovo soggetto della “missione grande”.

La famiglia è un soggetto-comunità posto dentro la comunità per costruire comunità, un soggetto-famiglia dentro la Chiesa per fare della Chiesa una grande famiglia. È la relazione a essere il nuovo soggetto della missione. Quella degli sposi è una relazione che è chiamata a costruire relazioni, a costruire comunioni. È una relazione che costruisce relazioni perché è pronta a dare tutta quell’unità che ha iscritta dentro alla sua umanità, per la grazia del sacramento delle nozze.

Gli sposi sono una rete relazionale che costruisce rete relazionale. La modalità attuativa è quella comunionale. I coniugati (letteralmente i “con-giogati”, coloro che sono sottoposti allo stesso giogo per vivere lo stesso scopo), o meglio i “collegati” in questa coppia sono chiamati a collegare, sono chiamati a fare famiglia. E questo non significa che devono fare tutto come coppia, tutti e due, sempre insieme, o che devono essere solo due persone che procedono alla pari nella fede: in ogni caso, anche se c’è un solo coniuge, la sua forza, il suo obiettivo, il suo modo di agire, la grazia specifica, che possiede per via del sacramento delle nozze, è quella di costruire comunione.

Accanto all’originalità del metodo, vi è anche un’originalità di contenuto: gli sposi, in forza della grazia del sacramento, sono chiamati a rendere presente ed efficace Gesù che è con loro. Come? Mediante il vivere quotidiano, le cose e le relazioni di tutti i giorni. I contenuti specifici sono la propria relazione di coppia (sposo-sposa) e la relazione genitoriale, la casa in tutti i suoi aspetti: accoglienza, condivisione, mangiare, stare insieme, parlare, lavorare, passeggiare, condividere. In tutti questi, e in molti altri spazi, gli sposi sono chiamati a “pontificare”, a rendere presente Gesù che ama. È una missione straordinaria. Cioè: sono chiamati a pontificare in quella che è la loro casa, nel loro salotto, andando a passeggio, facendo una vacanza insieme, lavorando con i colleghi. Sono chiamati a fare da “pontefici”, cioè facitori e costruttori di ponti, realizzatori di alleanze. Gli sposi sono il sacramento evidente dell’alleanza di Dio con l’umanità e di Gesù con la Chiesa. Quindi sono abilitati, autorizzati a fare alleanze, a edificare ponti anche davanti a un buon caffè, a una torta presa insieme, all’interno di un bar, di un ristorante, aspettando dalla parrucchiera o dal barbiere. Questo perché i coniugi hanno Gesù che ama in loro, in modo appassionato verso chiunque.

4.3. Come si attua questa missione e ministerialità

I canali per la missione grande sono, come per Gesù gesti e parole. Per i gesti, è sufficiente fare un elenco di quelli che possono servire per fare ponti, perché Gesù è in loro e loro sono dentro una relazione (sono una relazione), sono una carne sola, la grazia nella loro carne è potenza di relazione. E così gli sposi imparano a far sì che le loro parole siano relazione, contatto, vicinanza, comunicazione, avvicinamento: ogni gesto potrà essere di questo tipo. Pensate quanto “magistero” servizievole può correre dentro le parole di tutti i giorni degli sposi, un piccolo magistero capace di trasudare messaggi, di comunicare.

Gli sposi devono pensare il loro ministero diversamente da quello compiuto dai presbiteri. Il loro è un altro modo di annunciare la Parola, fatto di incontri, del parlare comune e quotidiano, delle cose della casa, delle parole, dell’accoglienza. Tutto ciò mettendo al centro uno scopo ben preciso. Quella grande missione che Gesù è venuto a realizzare sulla terra per trent’anni ci ha mostrato dove si realizza. Se il sacerdote, in modo speciale, è chiamato a celebrare la Pasqua nell’Eucaristia, gli sposi sono chiamati, come dice Renzo Bonetti, a celebrare Nazareth tutti i giorni, cioè Gesù che si rende presente nell’umanità attraverso la semplicità efficace di una casa. Dal sacramento, dunque, nasce una missione specifica.

4.4. La terra primaria di missione: le reti di relazione

C’è uno spazio concreto nel quale gli sposi sono chiamati a svolgere la loro missione? Come sono chiamati ad agire in esso? Prima di rispondere, occorre ribadire che per la grazia del sacramento delle nozze, gli sposi sono resi partecipi dell’amore che unisce il Verbo di Dio all’umanità, dell’amore che Cristo nutre per la Chiesa. Questo dono non è da consumare solo in casa: esso è conferito a vantaggio della comunità umana e della comunità ecclesiale. L’amore di Cristo che alberga nei coniugi non è destinato a essere congelato, ma è donato perché possa essere diffuso, offerto a ogni persona. Quindi gli sposi sono ri-presentazione, ri-offerta dell’amore divino, lì dove sono, di fronte a persone concrete. L’amore di Dio che si esprime attraverso di essi si concretizza, si fa parola, gesto, segno, ricerca, vicinanza, abbraccio. È un amore concreto, corporeo, che vive in una concreta situazione. Di questo amore partecipano gli sposi.

Come abbiamo già ricordato, la grazia del sacramento non consacra un singolo, ma una relazione: lei-lui. Rispetto al Battesimo e alla Cresima (per cui gli sposi sono già consacrati), la novità del Matrimonio è che viene consacrata la relazione dei due sposi. È questa relazione che viene chiamata a essere efficace in un luogo, in uno spazio e con persone concrete. È questa relazione consacrata che partecipa di una relazione più grande, quella di Cristo con la Chiesa. È questa relazione che diventa la risorsa specifica e originale che gli sposi hanno per esprimere e offrire ad altri il dono ricevuto. Si crea un’unità stupenda tra il dato umano (legame sposi) e il dono dello Spirito Santo che non si sovrappone, né si affianca, ma dà pienezza di vita e forza straordinaria alla relazione uomo-donna, facendola diventare divinamente espansiva e diffusiva del dono di Dio.

La relazione dei due sposi si colloca dentro una rete di relazioni più ampia e in questa è chiamata ad agire. Le famiglie sono la base della comunità territoriale, luogo, spazio di azione e di missionarietà sacramentale degli sposi. 

4.5. Chi sono i destinatari della missione degli sposi e della famiglia?

Nei confronti di chi deve essere svolta la missione dei coniugi? Gli sposi sono fuoco acceso, permanente dell’amore divino: sotto la semplicità delle loro relazioni umane vive un fuoco d’amore. Questo amore/fuoco non può essere messo in funzione solo in alcune circostanze. Il fuoco deve riscaldare lì dove si trova, con le persone che avvicina, e dare calore a quelli che vi passano accanto. Possiamo così dire che l’ambiente, lo spazio dell’essere e dell’agire degli sposi per vivere la loro missione è il territorio delle loro relazioni, il loro ambiente relazionale, il tessuto di contatti umani nel quale sono immersi. Per gli sposi non c’è un territorio geografico, c’è un territorio che è segnato dalla rete delle relazioni, un territorio delle relazioni. Lì gli sposi sono chiamati a compiere la celebrazione del loro amore, lì sono chiamati a essere efficaci. Il loro spazio di azione è disegnato da tutti quei fili di relazione che una famiglia tende, tesse, cuce lungo la sua storia. Quello è lo spazio, il luogo, quelle sono le persone destinatarie della missione degli sposi. Quindi: i destinatari della missione degli sposi sono tutte le persone con le quali essi vengono a contatto in modo continuo o anche occasionale.

Gli sposi hanno un dovere di annuncio e testimonianza nei confronti di tutte le persone con le quali vengono in relazione.

Gesù è presente negli sposi, con loro vuole continuare a dire, a manifestare il suo amore per ogni persona, il suo amore per il suo corpo che è la Chiesa, fatto di uomini e donne concreti che vengono incontrati. Questo fuoco che riscalda, questo Gesù amante nella coppia e con la coppia si esprime in primo luogo verso il coniuge e i figli, ma non si ferma lì. Anzi, a partire da lì, si esprime verso tutte le persone del tessuto relazionale, allargandosi a ogni persona che ne fa parte: i parenti di lei e di lui, i vicini di casa, i colleghi di lavoro, gli amici, tutte le persone con cui si entra in contatto. Come Gesù che passava e faceva del bene a tutti, senza perdere di vista nessuno (nemmeno Zaccheo nascosto sull’albero), così dovrebbe essere l’occhio vigile, attento della coppia di sposi che vuole dare corpo e attualizzazione all’amore di Gesù stesso che vive in loro. È chiaro, quindi, che gli sposi, dove sono e con chi vengono a contatto, possono essere segno, presenza, visibilizzazione della presenza di Gesù. Possono far conoscere, lì dove sono, alle persone che incontrano, la genuina natura della Chiesa. E la famiglia è abilitata a manifestare la genuina natura della Chiesa, perché la Chiesa è famiglia, è amore reciproco, è attenzione vicendevole, è accoglienza, è parola, è vicinanza, è abitare insieme.

Il sacramento del matrimonio, dunque, è dato per essere esercitato 24 ore su 24.

     

      1. Non è questione di “avere tempo a disposizione per…”, ma di un modo di essere accanto alle persone che incontro tutti i giorni. Il luogo dell’apostolato familiare non è solo l’ambiente parrocchiale e i suoi dintorni. Per gli sposi, la casa è luogo di annuncio: i parenti, i vicini, i colleghi, le famiglie che vivono disagi o in solitudine sono destinatari di una missione. «Strada facendo, predicate, dicendo che il Regno dei cieli è vicino» (Mt 10,7): Gesù non invita a prendersi del tempo “appositamente” per annunciare il Vangelo, ma dice di farlo “strada facendo”, cioè facendo le cose di ogni giorno, mangiando insieme, passeggiando, giocando e lavorando insieme. Non è possibile che possano annunciare il Vangelo solo quelli che hanno tempo: questo non è evangelico. Non si tratta perciò di “avere tempo”, ma nel cammino di tutti i giorni, dentro la rete relazionale che è stabilmente in funzione, essere segno di qualcosa di più grande.

      1. Coltivare le relazioni con tutti, come persone alle quali il Signore vuole annunciare qualcosa di sé e/o donare il suo amore. A tutte le persone che gli sposi incontrano tutti i giorni, tutto il giorno, Gesù vorrebbe donare tutto di sé. Il Cristo che abita in loro per il sacramento delle nozze è lì e vuole tentare di farlo attraverso gli sposi. Gli sposi, dunque, partecipano di questo Cristo “in stato di donazione” che vuole donarsi. Una coppia di sposi ha un mandato preciso nei confronti di ogni persona che incontra: far conoscere l’amore unitivo di Gesù che vive in loro. Di questo amore sono chiamati a essere “contagio permanente”. Le relazioni comuni, semplici, normali, attraverso i gesti del vivere quotidiano, in casa o fuori, diventano l’opportunità per il Gesù amante, presente in ogni coppia di sposi, di costruire la sua comunità, la sua famiglia. Gli sposi sono i “costruttori”, con Gesù, di un “tessuto connettivo” tra le persone, che non è più solo legato alle conoscenze, alle parentele, alle vicinanze, ma assume anche il contenuto di un amore più profondo. In Gesù e con Gesù, essi esprimono un’appartenenza diversa, anticipo della Famiglia definitiva, di un Regno di Dio che è già in questo mondo, ma che non è di questo mondo.

    Non c’è più un gesto, una parola, un modo di “essere accanto” che non sia un’opportunità per dare qualcosa dell’amore di Dio. Dire e dare: parole e gesti per dimostrare lo stare accanto a tutti. Tutte le cose del mondo, allora, sono destinate a divenire strumento di missione nelle mani degli sposi.

     

     

     

     

    5. Trasmettere un’esperienza

    Anche gli sposi, come tutti i battezzati, sono chiamati ad annunciare la propria fede e a evangelizzare. C’è, però, un particolare non trascurabile che riguarda gli sposi: essi dicono l’alleanza d’amore tra Dio e l’umanità (Gesù che si dona fino alla croce) partendo da un’esperienza nella quale sono immersi, che vivono, che è fatta di amore, il quale è invaso e coinvolto dentro il mistero più grande dell’amore di Cristo per la sua Chiesa. I coniugi sono dentro a questo amore, devono parlare del fuoco mentre vi bruciano dentro, devono parlare di acqua viva mentre se ne dissetano. Annunciano l’amore di Dio per l’umanità mentre ne sono pienamente coinvolti e partecipi per la grazia del sacramento. Ecco perché gli sposi sono chiamati ad annunciare la loro fede “chiacchierando”: nel normale conversare in qualsiasi luogo o momento, se per l’ascoltatore è il momento opportuno, essi possono dire anche la parola viva, il segreto nascosto del loro vivere. Manifestare questo mistero d’amore! Ciò va realizzato a partire dai figli, fino a tutte le persone che gli sposi incontrano. Trasmettere la fede per i coniugi è innanzitutto trasmettere un’esperienza: se tale esperienza è vissuta stabilmente, trasmettere la fede è dare la possibilità a chi incontra gli sposi di leggere la parola Amore su un libro di carne, prima di averla letta su un libro di carta.

    Per la missione degli sposi, vi è uno spazio primario o privilegiato dove essa può compiersi, ed è la loro casa, che contiene i sogni della loro vita, contiene la loro storia d’amore, sia nei momenti di gioia sia in quelli di sofferenza; la casa, dove si celebra per molte ore al giorno il dono reciproco degli sposi con gesti piccoli o grandi, attualizzando l’amore che Gesù continuamente dona alla sua Chiesa. Questa casa può diventare anche il luogo per consentire a Gesù di accogliere, parlare, ascoltare. È il luogo che si mette a disposizione di Gesù, all’interno del quale lui riceve le persone, le accoglie e gli parla. La casa è spazio offerto a Gesù per la sua missione. Tutto ciò che si può fare in casa può avere una valenza missionaria per Gesù: l’ospitalità (Abramo e Sara insegnano), offrire un caffè, un dolce, una cena; condividere la sofferenza; fare una preghiera insieme, ascoltare una riga di Vangelo. La casa diviene il punto di riferimento del “territorio relazionale”, la via alla conoscenza dell’amore di Dio, la via al godere l’Amore prima ancora di poterlo chiamare. Come un bimbo nell’utero materno, come un neonato in una casa gode dell’amore della mamma e del papà, della sua famiglia, così tutte le famiglie possono diventare “madri” di figli di Dio, le loro case possono diventare altrettanti “uteri”, nei quali i figli possono crescere, assaporando l’amore, prima ancora di conoscere il Dio Amore, prima ancora di conoscere Gesù. Così la casa diventa la via alla Chiesa, alla Famiglia più grande, alla grande tavola dell’Eucaristia.

     

     

    Pastorale familiare e attivazione del territorio di Roberto Maurizio

    Roberto nella sua relazione ha tematizzato il rapporto che va letto e inquadrato tra la comunità familiare, la pastorale e il territorio, fornendoci delle categorie di analisi molto utili sul piano della ideazione e progettazione sociale, un campo di cui ci ha aperto la declinazione sociologica e “di sguardo”.

     

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